Un'autopresentazione
Non posso dire di essere stato un bambino particolarmente intelligente però una cosa l’ho capita fin da subito e cioè che gli adulti sapevano fare un sacco di cose, male magari, ma le sapevano fare.
Io no: non sapevo stare a tavola, lavarmi, leggere, non sapevo pettinarmi e nemmeno allacciarmi le scarpe ed ero, in sovrappiù, ignorantissimo. Data l’età, ciò era anche logico ma sentivo frustrante il sapere di non sapere niente.
La faccenda, insomma, mi era risultata chiara fin da subito: la lotta era impari, io ero una nullità e la natura non mi aveva nemmeno concesso quelle armi strategiche minime di cui godono perfino gli animali più insulsi, vedi la seppia o il verme di terra.
Occorreva dunque trovare una soluzione, qualcosa che mi potesse proteggere e una zona franca, protetta, l’ho trovata con il disegno. Rompevo un vaso? Facevo alla svelta un disegnetto, copiavo un cavallo dall’enciclopedia, lo coloravo di marrone, e quando arrivava mio padre in collera, coi cocci del vaso in mano, per chiedere spiegazioni, guardava il disegno e mi perdonava. Diceva: “Questo ragazzo è un assassino ma sa disegnare”. Una volta ho acceso un fuoco sul terrazzo: per me era come il bivacco degli indiani, i gerani erano cactus e il mio cavallo era lì accanto; la fiamma però si alzò così tanto da lambire il bucato dell’inquilina del piano di sopra che non tardò a bussare alla porta di casa mia. La sua faccia paonazza era del tutto simile alla gonna bruciata che agitava furiosamente. La sua intenzione era di coprirmi di insulti ma si fermò al primo. Domandò a mia madre: “Ma questo cavallo, l’ha disegnato lui?”. “Sì”, le confermò mia madre e aggiunse scuotendo la testa in tono comprensivo: “Me ne combina di tutti i colori ma è bravo nel disegno”. “È bravo parecchio”, confermò la vicina. “Non è, per caso, che potrebbe disegnarne uno anche per me?”.
In quel periodo disegnavo molti cavalli, molti davvero. Le mie insegnanti di matematica e francese, nelle cui materie non sarei mai arrivato a rimediare un sei, si portavano a casa ritratti di quei quadrupedi in tutte le salse e pose. All’esame di licenza media, gli insegnanti quasi si dimenticarono di interrogarmi: mi facevano i complimenti per la prova di educazione artistica. Il professore di scienze si provò perfino a stabilire la razza degli equini che avevo ritratto: “Sono dei purosangue inglesi, non è vero, Tessaro?”. Annuii anche se non sapevo di che cosa diavolo stesse parlando. So per certo, peraltro, che il titolo del compito era “Case di periferia”.
Oggi sono un adulto e qualcosina, qua e là, l’ho imparata. Disegno ancora cavalli ma non lo faccio più per legittima difesa. Lavoro coi bambini e tento di ricordarmi il disagio che si può provare a quell’età. Tento perciò di misurarmi con loro solo dopo aver piegato le ginocchia per trovarmi così alla pari. Non divento più piccolo per questo: a 60 centimetri da terra si muovono pianeti sconosciuti e inimmaginabili.
Racconto storie con il disegno e so che è un privilegio perché quello di raccontare è il più bel mestiere del mondo.
Gek Tessaro